Argomento ambizioso, ammetto.
Intanto ringrazio Malek per essere intervenuto e mi scuso per il ritardo. La sua replica meritava un approfondimento a parte perciò ho preferito rispondere aprendo questo nuovo post.
Premetto che l'argomento mi è venuto in mente grazie ad un saggio di Emmanuel Todd e Youssef Courbage, che devo ancora leggere ma che mi sembra interessantissimo. Il saggio si chiama "Incontro delle Civiltà" e, partendo da un'analisi puramente socio-demografica (natalità, istruzione femminile...), cerca di dimostrare che la conflittualità tra occidente e Islam è frutto di un abbaglio destinato ad essere superato in modo naturale. In parte vedo la conferma di queste tesi nell'evoluzione che ha avuto l'Iran da quando sono nato.
L'argomento poi se sia possibile o meno una "modernità non-occidentale" è vecchissimo ma al momento lo lascerei fuori perché allargherebbe troppo il discorso.
Resterei generico sulla natura dei "bisogni insoddisfatti" che causano una rivoluzione popolare. Secondo la Arendt ci sono due condizioni necessarie perché scoppi una rivoluzione. Certamente ci vuole una diffusa insoddisfazione, ma da sola non basta. E' anche necessaria la convinzione che la propria insoddisfazione non deriva da una "condizione naturale", insomma che la situazione può essere resa diversa con un'azione collettiva.
In Iran questa seconda convinzione ha radici religiose: la tirannia non è voluta da Dio, è stata sempre avversata dai suoi profeti e dai 12 imam. Perciò essa non è nell'ordine naturale delle cose. Pur non conoscendo benissimo le singole realtà arabe mi è parso di notare che la seconda condizione, la convinzione che le cose possano e debbano essere cambiate, è in genere assente anche in presenza di un'insoddisfazione popolare.
Giustamente come fa notare Malek non sempre: l'essere dominati dallo straniero scatena il senso di critica verso il governo occupante. Ne sono un esempio episodi e movimenti di resistenza anticoloniale nel sud del Mediterraneo, da Omar al-Mukhtar in Libia fino all'FLN in Algeria. E poi gli esempi dell'Iraq occupato o della Palestina. Ma la stessa visione critica sembra assopirsi quando non si è governati dallo straniero: una tirannia o una democrazia zoppa sembrano allora appartenere all'ordine naturale delle cose purché il tiranno sia "nostro".
Sento di dover analizzare alcune eccezioni. La prima è l'Egitto. Lì però l'opposizione ha più natura cospirativa che popolare (e la rivoluzione non è cospirazione). Oltretutto, data la storia recente del paese e i conflitti con Israele, l'opposizione ha ancora aspetti fortemente "revanchisti". Cioè si connota più come lotta contro lo straniero, che non come critica ad un presidente a vita colpevole semmai di non essere abbastanza duro col nemico.
La seconda eccezione è l'Algeria dove, dopo una prima vittoria elettorale (una vittoria in quei termini può essere l'inizio di una rivoluzione di massa), l'estrema violenza del movimento islamico nei confronti della popolazione non schierata ha dato praticamente ragione alla violentissima repressione militare.
In entrambi i casi si è trattato di movimenti del tutto diversi dai moti che hanno agitato l'Iran dagli inizi del ventesimo secolo: l'obiettivo del FIS algerino, ad esempio, non era quello ottenere una democrazia fondata (e giustificata) dalla tradizione islamica. Piuttosto era quello di imporre a un intero popolo una tradizione vissuta in modo autoritario.
In Iran invece è diffusissima l'idea che il concetto di sovranità popolare trova conferma nella tradizione islamica.
Il governante (حاکم) gode di legittimazione religiosa (مشروع) a patto che goda anche di legittimazione popolare (مقبول). Comunque sia, rivestire quella carica non lo rende mai infallibile (معصوم), e dunque resta un uomo criticabile. Questa ad esempio è la visione di Montazeri, che fu un Marjà di altissimo livello con molti "imitatori" (مقلد) tra gli stessi pasdaran.
Probabilmente hai ragione sul fatto che lo sciismo aiuta molto ad avere questo concetto rivoluzionario della tradizione. Che io sappia comunque non esistono altri casi, nel mondo islamico, di dottrine che intendano raggiungere la modernità attraverso la tradizione. La Turchia ad esempio è molto moderna ma non conta, ed è ovvio il perché: cosa c'è di "tradizionale" nell'abbandonare persino l'alfabeto in cui i tuoi padri hanno scritto le loro poesie?
Non che questa visione sia propria di tutto in popolo iraniano, anzi. Nella rivoluzione del 1979 c'èra molta ambiguità in proposito: era presente certamente la tendenza democratica appena descritta, ma era fortemente presente anche la tendenza reazionaria, quella assimilabile al FIS algerino.
Queste due componenti non arrivarono mai al conflitto aperto fino ad oggi. La guerra con l'Iraq e il terrorismo cieco dei mujahedin del popolo li costrinsero a convivere. Poi negli anni '90 la componente democratica scoprì di avere un consenso massiccio nel paese. Ma scoprì anche che non avrebbe mai potuto riformare il paese seguendo un iter legale, a causa di "monsieur veto" Khamenei e dell'istituzione che incarnava.
Tra il 2001 e il 2002 la situazione in Iran era già "pre-rivoluzionaria" a mio parere. Ma poi ci si mise quell'imbecille di Bush a far sì che le due componenti politiche della Repubblica Islamica si compattassero. Così oggi, sepolto Bush, la componente autoritaria e quella democratica sembrano quelle coppie che hanno vissuto per anni insieme odiandosi, e ora che i figli sono tutti cresciuti non solo divorziano ma si tirano pure i piatti.
Nell'area del Golfo l'esempio iraniano è stato vissuto come un imbarazzante pericolo da parte dell'estabilishment dei paesi arabi, a partire dal 1979. Un po' come le monarchie dell'ancien regime reagirono alla Francia repubblicana. Ciò fra l'altro fu la rovina di Saddam Hussein: un laico totale, spinto a invadere l'Iran trasformandosi nel braccio armato dell'ancien regime islamico.
La cosa che salta all'occhio nei moti di oggi è nuovamente l'imbarazzo delle stesse monarchie. Da una parte Ahmadinejad e Khamenei sono visti come nemici e fonte di instabilità nella regione. Dall'altra però, vedere nuovamente una rivoluzione che trionfa in Iran potrebbe essere pericoloso in prospettiva se il popolo iniziasse a pensare "ehi, allora è possibile!".
Intanto ringrazio Malek per essere intervenuto e mi scuso per il ritardo. La sua replica meritava un approfondimento a parte perciò ho preferito rispondere aprendo questo nuovo post.
Premetto che l'argomento mi è venuto in mente grazie ad un saggio di Emmanuel Todd e Youssef Courbage, che devo ancora leggere ma che mi sembra interessantissimo. Il saggio si chiama "Incontro delle Civiltà" e, partendo da un'analisi puramente socio-demografica (natalità, istruzione femminile...), cerca di dimostrare che la conflittualità tra occidente e Islam è frutto di un abbaglio destinato ad essere superato in modo naturale. In parte vedo la conferma di queste tesi nell'evoluzione che ha avuto l'Iran da quando sono nato.
L'argomento poi se sia possibile o meno una "modernità non-occidentale" è vecchissimo ma al momento lo lascerei fuori perché allargherebbe troppo il discorso.
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Resterei generico sulla natura dei "bisogni insoddisfatti" che causano una rivoluzione popolare. Secondo la Arendt ci sono due condizioni necessarie perché scoppi una rivoluzione. Certamente ci vuole una diffusa insoddisfazione, ma da sola non basta. E' anche necessaria la convinzione che la propria insoddisfazione non deriva da una "condizione naturale", insomma che la situazione può essere resa diversa con un'azione collettiva.
In Iran questa seconda convinzione ha radici religiose: la tirannia non è voluta da Dio, è stata sempre avversata dai suoi profeti e dai 12 imam. Perciò essa non è nell'ordine naturale delle cose. Pur non conoscendo benissimo le singole realtà arabe mi è parso di notare che la seconda condizione, la convinzione che le cose possano e debbano essere cambiate, è in genere assente anche in presenza di un'insoddisfazione popolare.
Giustamente come fa notare Malek non sempre: l'essere dominati dallo straniero scatena il senso di critica verso il governo occupante. Ne sono un esempio episodi e movimenti di resistenza anticoloniale nel sud del Mediterraneo, da Omar al-Mukhtar in Libia fino all'FLN in Algeria. E poi gli esempi dell'Iraq occupato o della Palestina. Ma la stessa visione critica sembra assopirsi quando non si è governati dallo straniero: una tirannia o una democrazia zoppa sembrano allora appartenere all'ordine naturale delle cose purché il tiranno sia "nostro".
Sento di dover analizzare alcune eccezioni. La prima è l'Egitto. Lì però l'opposizione ha più natura cospirativa che popolare (e la rivoluzione non è cospirazione). Oltretutto, data la storia recente del paese e i conflitti con Israele, l'opposizione ha ancora aspetti fortemente "revanchisti". Cioè si connota più come lotta contro lo straniero, che non come critica ad un presidente a vita colpevole semmai di non essere abbastanza duro col nemico.
La seconda eccezione è l'Algeria dove, dopo una prima vittoria elettorale (una vittoria in quei termini può essere l'inizio di una rivoluzione di massa), l'estrema violenza del movimento islamico nei confronti della popolazione non schierata ha dato praticamente ragione alla violentissima repressione militare.
In entrambi i casi si è trattato di movimenti del tutto diversi dai moti che hanno agitato l'Iran dagli inizi del ventesimo secolo: l'obiettivo del FIS algerino, ad esempio, non era quello ottenere una democrazia fondata (e giustificata) dalla tradizione islamica. Piuttosto era quello di imporre a un intero popolo una tradizione vissuta in modo autoritario.
In Iran invece è diffusissima l'idea che il concetto di sovranità popolare trova conferma nella tradizione islamica.
Il governante (حاکم) gode di legittimazione religiosa (مشروع) a patto che goda anche di legittimazione popolare (مقبول). Comunque sia, rivestire quella carica non lo rende mai infallibile (معصوم), e dunque resta un uomo criticabile. Questa ad esempio è la visione di Montazeri, che fu un Marjà di altissimo livello con molti "imitatori" (مقلد) tra gli stessi pasdaran.
Probabilmente hai ragione sul fatto che lo sciismo aiuta molto ad avere questo concetto rivoluzionario della tradizione. Che io sappia comunque non esistono altri casi, nel mondo islamico, di dottrine che intendano raggiungere la modernità attraverso la tradizione. La Turchia ad esempio è molto moderna ma non conta, ed è ovvio il perché: cosa c'è di "tradizionale" nell'abbandonare persino l'alfabeto in cui i tuoi padri hanno scritto le loro poesie?
Non che questa visione sia propria di tutto in popolo iraniano, anzi. Nella rivoluzione del 1979 c'èra molta ambiguità in proposito: era presente certamente la tendenza democratica appena descritta, ma era fortemente presente anche la tendenza reazionaria, quella assimilabile al FIS algerino.
Queste due componenti non arrivarono mai al conflitto aperto fino ad oggi. La guerra con l'Iraq e il terrorismo cieco dei mujahedin del popolo li costrinsero a convivere. Poi negli anni '90 la componente democratica scoprì di avere un consenso massiccio nel paese. Ma scoprì anche che non avrebbe mai potuto riformare il paese seguendo un iter legale, a causa di "monsieur veto" Khamenei e dell'istituzione che incarnava.
Tra il 2001 e il 2002 la situazione in Iran era già "pre-rivoluzionaria" a mio parere. Ma poi ci si mise quell'imbecille di Bush a far sì che le due componenti politiche della Repubblica Islamica si compattassero. Così oggi, sepolto Bush, la componente autoritaria e quella democratica sembrano quelle coppie che hanno vissuto per anni insieme odiandosi, e ora che i figli sono tutti cresciuti non solo divorziano ma si tirano pure i piatti.
Nell'area del Golfo l'esempio iraniano è stato vissuto come un imbarazzante pericolo da parte dell'estabilishment dei paesi arabi, a partire dal 1979. Un po' come le monarchie dell'ancien regime reagirono alla Francia repubblicana. Ciò fra l'altro fu la rovina di Saddam Hussein: un laico totale, spinto a invadere l'Iran trasformandosi nel braccio armato dell'ancien regime islamico.
La cosa che salta all'occhio nei moti di oggi è nuovamente l'imbarazzo delle stesse monarchie. Da una parte Ahmadinejad e Khamenei sono visti come nemici e fonte di instabilità nella regione. Dall'altra però, vedere nuovamente una rivoluzione che trionfa in Iran potrebbe essere pericoloso in prospettiva se il popolo iniziasse a pensare "ehi, allora è possibile!".
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