Anno 1999, due interviste.
Massoud Dah Namaki, capo-squadraccia di un gruppo di "plainclothes", nella rivista "Jebhé" ["Fronte" ndt] diceva così: "I riformisti sono degli esseri che accetterebbero di difendere i loro rappresentanti solo dalla cabina elettorale. Noi dobbiamo cambiare il tipo di gioco, in modo che possano solo andare a casa a nascondersi".
Nello stesso periodo Mehdi Taeb, di recente capo dei Bassij (prima che l'organizzazione venisse definitivamente posta sotto la giurisdizione della Sepah), affermava: "Questa è gente di Pounak e Niavaran [quatrieri bene, ndt], è gente non alza il tovagliolo senza usare la forchetta. Non è gente che prende manganellate, e infatti appena vedrà il manganello scapperà a casa".
E' difficile dire quanto questo tipo di mentalità, autoalimentatasi in reciproche pippe mentali per un decennio o forse più, abbia inciso nella crisi odierna. E' difficile dire quanto abbia inciso nel prevedere una facile repressione e normalizzazione dopo le elezioni, quado si trattò di decidere se approvare o no il risultato elettorale. Ma ha indubbiamento avuto un peso.
Oltretutto costoro non sono gli unici. A chiunque dei lettori di questo blog sarà capitato di sentire (o pensare) "beh ma quelli sono più decisi, più cattivi, alla fine la spunteranno". Una superficialità del genere è scusabile (poco, ma lo è) da parte di un Italiano. Non lo è per nulla da parte di chi ha vissuto in pirma persona un periodo in cui a persone del tutto ordinarie sbucò un coraggio leonino.
Uomini politici e "gruppi di pressione" vicini al leader hanno più volte sottolineato come, secondo loro, mediante l'uso della repressione urbana fosse possibile raggiungere qualunque obiettivo politico. Più precisamente da almeno due decenni l'investimento nell'apparato repressivo dei gruppi di pressione è una delle voci più importanti del bilancio della Sepah.
Ma, come ormai pare evidente, è stato un errore di valutazione. Un errore al quale costoro fanno fatica a credere. Perché su questo equivoco si basa la loro intera strategia, e fa male pensare di aver creduto a delle cazzate e agito di conseguenza. Fa male pensare di essere da meno rispetto a "fighetti" che disprezzi o - Dio non voglia! - rispetto a delle donne.
L'errore principale, di costoro e del superficiale italiano, consiste nel ritenere il coraggio una dote naturale o un dono divino. Un qualcosa col quale si nasce, o che si nasce sprovvisti di esso. Una questione trascendentale insomma.
Il coraggio, invece, è solo una relazione sociale. Si tratta cioè di un concetto che dipende dai fattori ambientali in misura preponerante rispetto ai tratti caratteriali. Citando Kraus, posto nelle giuste condizioni, l'impiegato che si spaventa allo scoppio di un palloncino di carta assalta da solo un nido di mitragliatori pur di non deludere il commiliotone che fa conto su di lui. Per poi tornare in ufficio, dopo la guerra, e spaventarsi allo scoppio dello stesso palloncino.
Non c'è nulla di caratteriale, divino, genetico, trascendente in questo. Solo ambientale.
Un italiano può anche non saperlo e non immaginarlo. Un iraniano che ha visto Khosro Golesorkhi, intellettuale alto 1.60 per 60 chili, battersi come un leone per mettere sotto accusa il re anziché difendersi in un tribunale che lo stava condannando a morte per crimini non commessi, chi ha visto questa scena dicevo dovrebbe avere idee molto più realistiche sulle forme in cui il "coraggio" si manifesta.
Massoud Dah Namaki, capo-squadraccia di un gruppo di "plainclothes", nella rivista "Jebhé" ["Fronte" ndt] diceva così: "I riformisti sono degli esseri che accetterebbero di difendere i loro rappresentanti solo dalla cabina elettorale. Noi dobbiamo cambiare il tipo di gioco, in modo che possano solo andare a casa a nascondersi".
Nello stesso periodo Mehdi Taeb, di recente capo dei Bassij (prima che l'organizzazione venisse definitivamente posta sotto la giurisdizione della Sepah), affermava: "Questa è gente di Pounak e Niavaran [quatrieri bene, ndt], è gente non alza il tovagliolo senza usare la forchetta. Non è gente che prende manganellate, e infatti appena vedrà il manganello scapperà a casa".
E' difficile dire quanto questo tipo di mentalità, autoalimentatasi in reciproche pippe mentali per un decennio o forse più, abbia inciso nella crisi odierna. E' difficile dire quanto abbia inciso nel prevedere una facile repressione e normalizzazione dopo le elezioni, quado si trattò di decidere se approvare o no il risultato elettorale. Ma ha indubbiamento avuto un peso.
Oltretutto costoro non sono gli unici. A chiunque dei lettori di questo blog sarà capitato di sentire (o pensare) "beh ma quelli sono più decisi, più cattivi, alla fine la spunteranno". Una superficialità del genere è scusabile (poco, ma lo è) da parte di un Italiano. Non lo è per nulla da parte di chi ha vissuto in pirma persona un periodo in cui a persone del tutto ordinarie sbucò un coraggio leonino.
Uomini politici e "gruppi di pressione" vicini al leader hanno più volte sottolineato come, secondo loro, mediante l'uso della repressione urbana fosse possibile raggiungere qualunque obiettivo politico. Più precisamente da almeno due decenni l'investimento nell'apparato repressivo dei gruppi di pressione è una delle voci più importanti del bilancio della Sepah.
Ma, come ormai pare evidente, è stato un errore di valutazione. Un errore al quale costoro fanno fatica a credere. Perché su questo equivoco si basa la loro intera strategia, e fa male pensare di aver creduto a delle cazzate e agito di conseguenza. Fa male pensare di essere da meno rispetto a "fighetti" che disprezzi o - Dio non voglia! - rispetto a delle donne.
L'errore principale, di costoro e del superficiale italiano, consiste nel ritenere il coraggio una dote naturale o un dono divino. Un qualcosa col quale si nasce, o che si nasce sprovvisti di esso. Una questione trascendentale insomma.
Il coraggio, invece, è solo una relazione sociale. Si tratta cioè di un concetto che dipende dai fattori ambientali in misura preponerante rispetto ai tratti caratteriali. Citando Kraus, posto nelle giuste condizioni, l'impiegato che si spaventa allo scoppio di un palloncino di carta assalta da solo un nido di mitragliatori pur di non deludere il commiliotone che fa conto su di lui. Per poi tornare in ufficio, dopo la guerra, e spaventarsi allo scoppio dello stesso palloncino.
Non c'è nulla di caratteriale, divino, genetico, trascendente in questo. Solo ambientale.
Un italiano può anche non saperlo e non immaginarlo. Un iraniano che ha visto Khosro Golesorkhi, intellettuale alto 1.60 per 60 chili, battersi come un leone per mettere sotto accusa il re anziché difendersi in un tribunale che lo stava condannando a morte per crimini non commessi, chi ha visto questa scena dicevo dovrebbe avere idee molto più realistiche sulle forme in cui il "coraggio" si manifesta.
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