mercoledì 11 novembre 2009

Ghobadi contro Kiarostami

Leggo e traduco una dura lettera aperta del regista Bahman Ghobadi in replica ad un'intervista di Abbas Kiarostami. Nell'intervista il vecchio Kiarostami era stato molto polemico con l'impegno sociale e politico dei registi della cosiddetta "new wave" del cinema iraniano.

Il confronto polemico tra "cinema puro" e "cinema ideologico" è noioso quanto un vecchio che ti racconta di quando scopava. Ma la lettera è interessante per far capire come, ormai, in Iran, «non esiste più un 'là fuori'».

***

Carissimo signor Kiarostami

In tutti questi anni, durante i quali come regista per me sei stato un modello ispiratore, non ho mai osato scriverti nemmeno una lettera privata. Se mi venivano in mente delle cose da dire, cacciavo il pensiero preferendo ascoltare le tue saggi parole in silenzio. Ma la tua recente intervista con un giornale straniero mi ha talmente sorpreso che ho preso in mano la penna per scriverti pubblicamente.

Tutto è iniziato quella maledetta sera al festival Abu Dhabi, quando mi hai preso per il braccio e, in privato, mi hai detto che il mio film "nessuno sa nulla dei gatti persiani" non ti era piaciuto. Non ci sono rimasto male, sono rimasto estremamente sorpreso: cinque mesi prima avevi visto lo stesso film a casa mia a Teheran e mi avevi detto che ti piaceva.

Non capivo come mai avevi cambiato idea in un così breve tempo ma, come sempre, la tua opinione era per me importante e ti ho ringraziato. Però poi hai proseguito. Hai criticato ferocemente il mio concetto di cinema e il mio approccio alle questioni sociali, usando contro di me e Panahi un linguaggio sgradevole che non mi sarei mai aspettato di sentire da una persona del tuo calibro. Hai paragonato il nostro cinema alle opere più sciocche che uno possa immaginare. Non solo, ma ci hai accusati di menzogna, quando ci eravamo limitati a riportare - nelle nostre pellicole - le parole che avevamo sentito nei sotterranei delle nostre case e negli angusti vicoli delle nostre città.

Hai detto che quando per un regista si battono le mani e lo si copre di ovazioni, ormai è un regista morto. Forse allora anche Kiarostami era già un regista morto a Cannes dopo Il Sapore della Ciliegia e Sotto gli Ulivi? Dopo la proiezione del mio film eri l’unico in sala che non applaudiva e sembrava persino arrabbiato.

Mio caro e prezioso maestro, i tuoi insegnamenti sono stati importanti per me e per tutti i cinefili del paese. Ma questo non ti dà il diritto di tracciare un solco dal quale non si può deviare, e di considerare senza valore qualunque film che non sia, come i tuoi, intimistico e completamente al di fuori delle questioni sociali.

Io prendo le mie motivazioni dal respiro caldo del pubblico, dalla sua approvazione, che per me è un premio notevolmente più prezioso del premio in denaro che lo stesso pubblico mi ha elargito. Il mio stile è quello di cercare di provocare reazioni nel pubblico, di stabilire un’empatia.

Quando quella sera mi hai tirato da parte, per un attimo ho pensato volessi consolarmi per non aver vinto il primo premio. Mi stavo preparando a risponderti che non tengo in grande considerazione le vittorie e che ero soddisfatto dalla reazione del pubblico. Avresti fatto meglio a tacere e non mandare in pezzi il mito che di te avevo costruito nel mio immaginario.

Carissimo signor Kiarostami, tu non ha diritto di accusare noi di fare del cinema militante solo per ripulire la tua coscienza di moderato silenzioso. Per tutti questi anni hai girato pellicole che non avevano alcun rapporto con la politica e con la nostra società, ed è assolutamente ovvio che si tratta di un tuo diritto.

Anche se, va detto, se lo avessi fatto, se avessi schiuso le labbra a criticare l’ingiustizia del tiranno, avresti sicuramente goduto di margini di intoccabilità superiori al nostro. Se io e Jafar, con tutto quello che abbiamo subito, godiamo della solidarietà degli organizzatori dei festival e di qualche cittadino informato in giro per il mondo, per te, se solo ti avessero toccato, sarebbe sceso in campo l’ONU!

Ma come ho detto il silenzio è un tuo diritto. Quello che non è un tuo diritto è il rilasciare interviste che vengono poi pubblicate con sorriso soddisfatto dai media del regime. Come ti permetti di deridere il desiderio degli autori di affiancare, con le loro opere, il popolo in lotta? Con un linguaggio, oltretutto, che fino ad oggi ha identificato i media del regime e il clero più oscurantista.

Dici che non c’è paese al mondo meglio dell’Iran per fare cinema. Forse è vero per i film che giri tu, ma per chi desidera fare un cinema come il nostro, l’Iran è una caserma. Come fai a definire un paese che mette in atto la più rigida delle “il miglior paese per girare dei film”?

Quando ai nostri registi, uno dopo l’altro, viene ritirato il passaporto, e Panahi perde la possibilità di iniziare un’importante coproduzione internazionale, con che coraggio non solo non li difendi, ma addirittura li critichi perché non girano film in Iran, notoriamente “il miglior posto al mondo per girare un film”? Forse non capisco la tua ironia, ma non ho visto nessuna traccia di humour nelle tue parole. Se davvero credi a quello che dici, allora per quale motivo il tuo ultimo film è girato a 5000 chilometri dall’Iran, in Toscana?

Nella stessa intervista diventavo bersaglio delle tue frecciate: “se Ghobadi crede di poter fare del buon cinema fuori dal paese gli faccio i miei auguri; da quel che ho visto io, per quelli che hanno fatto questa scelta, le cose sono andate diversamente”. Io non ho abbandonato il mio paese. Io sono stato CACCIATO dal mio paese, perché mi si è impedito di lavorare! E nonostante questo, mentre tu eri in Toscana a girare, io stavo girando a Teheran. Non voglio pensare che stai proiettando te stesso su altri.

Se io, come ogni patriota, mi preoccupo per il mio paese, se lo faccio attraverso dei film, lo faccio perché la società ha fatto di me un regista. Non lo faccio per istigare i giovani a lasciare il paese, non è l’obiettivo del mio film, che presto sarà distribuito gratis nel paese. E allora tutti potranno giudicare.

Hai detto: “l’unico posto in cui posso dormire tranquillo la notte è casa mia…”. Come fai a dormire la notte, quando tutto il mondo sa quello che capita ai nostri giovani? Come riesci a dormire, quando i tuoi compatrioti non prendono sonno preoccupati per il loro futuro e quello dei loro figli? Cosa ne sai di come ci si sente, quando il tuo film ha successo a Cannes ma tu finisci in prigione, quando vieni inquisito per le interviste che hai rilasciato e in cui hai parlato della situazione del tuo paese?

Io ho provato tutto questo nella mia carne e nelle mie ossa. E’ per questo che non riesco a prendere sonno. E’ per questo che la situazione in cui oggi versa il paese è per me più importante del cinema. E’ per questo che accetto persino di rinunciare al mio lavoro pur di restare accanto ai miei compatrioti. Mi manca tanto quel monolocale dove di notte dormivo beato. Ma tu dormi pure tranquillo, tu che puoi.

Hai scritto: “voglio girare i film nel mio paese e nella lingua di mia madre”. Perché non ti hanno mai ridotto al silenzio per il fatto di essere curdo e sunnita. Ma in quello stesso paese che è anche il mio, non mi è stata mai data l’autorizzazione per girare un film nella lingua di mia madre.

Anch’io amo il mio paese. Anch’io amo girare film nella lingua di mia madre. Ma questo piacere mi viene negato perché non sono stato zitto. Tu hai tutto questo al prezzo del tuo silenzio. Avresti fatto bene ad andare per la tua strada. A restartene silenzioso a casa tua, in fondo a quel vicolo cieco, a dormire il sonno dei giusti. A lasciarci stare in compagnia della nostra gente, quella gente il cui futuro ci preme più del nostro cinema. Che bisogno c’era di mettersi a dire le cose che già dicono quelli che opprimono il popolo?

Caso signor Kiarostami, in questi giorni che stabiliranno il destino del nostro paese, che tu voglia o non voglia, giusto o sbagliato che sia, l’unica misura della rispettabilità e dell’onore di una persona è se sta dalla parte del popolo o da quella dei suoi oppressori. Tu, con le tue parole, hai criticato la nostra decisione di stare dalla parte del popolo con il nostro lavoro, la nostra arte, con la nostra voce nei festival.

Il popolo non dimenticherà il silenzio degli artisti. E il popolo è il migliore dei giudici.

3 commenti:

  1. Grazie per questo post e per quelli su Makhmalbaf, molto interessanti.

    Anche se, personalmente, ritengo le parole di Ghobadi abbastanza ingiuste.

    Kiarostami ha avuto problemi con la censura quasi sempre, soprattutto negli ultimi anni, quando pratricamente tutti i suoi film sono stati messi al bando. Tuttavia, a parte l'eccezione isolata del film che ha appena finito (e che è già stato vietato in Iran), ha sempre espresso l'intenzione di girare in patria.

    Non è così corretto dire che i suoi film non si occupino della società; spesso lo fanno in maniera indiretta, poichè l'obiettivo è provare ad avere una distribuzione nel Paese, far arrivare le proprie allusioni al pubblico, che è senz'altro più intelligente dei censori. E almeno in un caso (il film Dieci) la denuncia si è fatta esplicita.

    Inoltre, Kiarostami alle penultime elezioni ha votato contro Ahmadinejad, alle ultime non ha votato e successivamente ha firmato un appello contro la repressione. E' legittimo definire "artista di regime" una persona che teme la guerra civile e che preferisce il dialogo allo scontro? In un certo senso sì, poiché il dialogo appare impossibile; ma secondo me, che considero Kiarostami in buona fede, sono critiche un po' ingenerose.

    Ovviamente non so cosa i due si siano detti in privato, ma ho letto l'intervista in questione.
    Ebbene, io non vedo ironia nella frase riportata da Ghobadi, il quale emette la parte precedente: "I have no criticism of anybody else that should choose to leave their home" (sul fatto che sia una scelta o meno si può discutere: io ho elementi per optare per una via di mezzo). Nè mi sembra che Kiarostami abbia definito l'Iran il miglior posto per fare cinema. Al contrario: "[In Tuscany] I did not have the complicated issues to do with film production that I would have in Iran. I felt a sense of complete freedom to express what I have to say".

    Per tacere di molte piccole imprecisioni o addirittura piccole falsità che Ghobadi riporta in questo intervento e che per brevità tralascio.

    Ora, io capisco perfettamente le tensioni che Ghobadi sta vivendo, so bene quanto complicata sia la sua situazione, ma in questo caso mi sento di difendere d'ufficio il suo collega e maestro.

    L'intervista a Kiarostami è qui:
    http://www.thenational.ae/apps/pbcs.dll/article?AID=/20091019/ART/710189962/1082/rss

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  2. Ti ringrazio per il link dell'intervista a Kiarostami perché lo stavo cercando invano. Devo anche cercare di capire cosa abbia letto Ghobadi.

    Ho riportato la lettera aperta più che altro per inquadrarla nella vecchia e annosa questione di "formalismo VS contenutismo". Anche per toccare con mano gli effetti di una discussione del genere - che normalmente è solo artistica - in una condizione di tensione ideologica forte come accade in Iran oggi. Insomma per dire: la situazione è seria, saltano amicizie.

    Va detto che a mio parere il cinema è un'arte comunicativa, non fine a se stessa. Con un discorso puramente formalista si rischia di girare a vuoto e di ammiccare ai soli critici. Insomma il film deve piacere a un pubblico.

    Non voglio cadere nell'estremo di giustificare vacanze di natale, non sono quel tipo di spettaore. Ma potremmo fare diversi esempi di registi che, non trovando più "storie interessanti", sono diventati inguardabili. E parlo di grandi registi, non di gente "buona la prima".

    Grazie ancora per il link!

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  3. A mio parere qui si tratta di due diversi modi di interpretare il contenutismo. Panahi e, ultimamente, Ghobadi fanno film che non hanno alcuna possibilità di essere visti in Iran, se non attraverso il mercato clandestino. Il loro principale target è la comunità internazionale. Il cinema di Kiarostami si colloca invece al limite del censurabile, nella speranza di ottenere un visto censura e al contempo di stimolare indirettamente il pubbloco alla riflessione. E' un approccio che conta innumerevoli precedenti nella storia dell'arte, non solo cinematografica. Io attribuisco la medesima legittimità a entrambi in modi; soprattutto in questi casi, data la levatura delle opere realizzate: stiamo parlando, secondo me, di tre dei maggiori registi al mondo.

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