venerdì 13 novembre 2009

Non violenza come scelta strategica


Non meno di 3 anni fa qualcuno un po' in vena di originalità mi disse che aveva notato un atteggiamento di basso profilo dei comici italiani nei confronti dell'islamismo militante. A suo dire i comici temono la ritorsione, e preferiscono evitare.

La mia opinione era che la critica all'islamismo in Europa funziona solo esteriormente, e solo per alcune posizioni politiche, ma che tutto sommato non è un problema davvero sentito a livello popolare. Se lo fosse stato, se davvero fosse stato un problema sentito "nelle ossa" del popolo, sostenevo allora (e sostengo ancora oggi), il pericolo di ritorsioni non avrebbe avuto alcun effetto.

Portai l'esempio di autori e scrittori iraniani che da anni sono quotidianamente critici verso l'islamismo militante a costo di essere ostracizzati, carcerati, torturati, esiliati. Uno di questi autori è Ebrahim Nabavi.

Ebrahim Nabavi è un grande autore satirico contemporaneo. In assoluto l'autore iraniano che leggo di più. Uno stile leggero e martellante allo stesso tempo, che colpisce duro e non fa prigionieri, ma senza perdere lucidità.

Per certi versi ricorda Beppe Grillo, ma meno incazzoso, più lucido appunto. Tutto sommato con più acume politico rispetto al comico genovese, e ne beneficia lo stile. In un paese come l'Iran, quando devi scrivere nonostante la censura e il carcere, l'acume ti si sviluppa da solo. Così ti doti di uno stile che spesso "il boia non capisce", come avrebbe detto Karl Kraus. Lo stile migliore.

Oggi traduco un suo scritto serio che prova quanto ho appena detto. Lo scritto è apparso sulla webzine "rahesabz", ed è interessante anche per un'altra discussione in cui sono impegnato via mail. A volte è difficile cogliere le differenze tra l'oggi e lo ieri, per motivi di età o perché si è distratti dalla quotidianità. Ma queste differenze vanno colte, altrimenti si rischia di trarre conclusioni troppo affrettate e si rischia di non capire cosa sta accadendo.

Il movimento rivoluzionario che rovesciò lo Shah trent'anni fa, non produsse mai uno scritto simile. Mai. E tra poco sarà chiaro perché. Buona lettura.

***

La violenza non ci renderà liberi:

Nella prima parte di questo articolo spiegai come la lotta non violenta sia oggi per noi l'unica opzione percorribile, e che la selvaggia repressione messa in atto il 4 novembre, nonostante sia un'amara realtà, non ci deve trascinare dove vuole il regime.

Il regime vuole che la lotta diventi violenta per far sì che sia costoso parteciparvi, così potranno affrontare manifestazioni di diecimila persone anziché masse di milioni. Diecimila persone possono essere attestate o disperse, ma nessuna polizia al mondo riuscirà mai a disperdere due milioni di individui. Di fronte a manifestazioni di massa, alla polizia non rimane altro da fare che stare a guardare dai vicoli laterali.

Quando internamente al movimento ci si lamenta del fatto che "a mani nude" riusciamo solo ad avere più perdite, dobbiamo chiederci: un cambiamento di strategia ed una lotta più radicale ci aiutano a raggiungere meglio i nostri obiettivi o il contrario?

In generale la teoria della lotta contro un regime ammette la "violenza primaria" in due situazioni. In primis quando si combatte per la vittoria, cioè per dare il colpo di grazia al regime. Oppure quando si combatte per informare e per rompere l'atmosfera di silenzio che grava sulla società (la teoria avanguardista: il "piccolo ingranaggio" della guerriglia che mette in moto il "grande ingranaggio" della società).

Nelle condizioni attuali il nostro movimento non ha alcuna esigenza di rompere il silenzio: il popolo è già informato e ha già preso posizione, e certamente sulla società non grava una cappa di silenzio e di disinteresse politico. Pertanto avremmo qualche ragione di ricorrere alla lotta armata solo se intravvedessimo più del 50% di possibilità di dare al regime il colpo di grazia.

Ora, visto che sappiamo tutti che in caso di occupazione di una caserma di pasdaran il regime contrattaccherà con tank, elicotteri ed RPG-7 e ci farà a pezzi, e dopo impiccherà gli arrestati, è ovvio che iniziare la lotta armata è stupido. La cosa sarebbe proponibile solo in caso di insurrezione generale a regime già sgretolato, come accadde l'11 febbraio 1979. Ma anche allora bisognerebbe continuare, con la politica, a provocare defezioni tra gli ultimi fedeli al regime per avere meno perdite.

[...]

Una comunicazione con minori costi umani significa anche un calo della violenza. Una parte della violenza contro il movimento è provocata non tanto dalla precisa volontà del regime di provocare terrore, quanto dal fatto che il movimento non gode di una comunicazione semplice ed agevole.

L'aiuto dei numerosi verdi fuori dal paese è di primaria importanza. Essi devono togliere dai compagni residenti nel paese il fardello organizzativo ogni volta che ciò è possibile. Continuare a comunicare usando i social network o l'email per distribuire comunicati, direttive, concordare slogan e iniziative, [...] farà calare notevolmente il rischio organizzativo, dato che i compagni all'estero sono al sicuro. In un certo senso si tratterebbe anche della vera messa in pratica del nostro principio di "leadership collettiva".

Sul piano mediatico ci troviamo impegnati in un confronto asimmetrico. Il nostro movimento esiste da soli sei mesi e si trova a doversi confrontare con una propaganda di regime che ha un'esperienza trentennale [...]. Voglio dire che una parte dei nostri problemi deriva dall'inesperienza. Va anche detto che il movimento sta crescendo, accumulando esperienza, e si va rafforzando rapidamente. Tuttavia per quel che concerne la leadership esecutiva ci sono ancora ampi margini di crescita.

Una cosa notevole è che il movimento è incredibilmente "saggio", in un modo che nella storia nazionale non ha precedenti. Ma si possono ancora fare molte cose per diminuire i costi umani. Ad esempio l'uso dei social network, per quanto utile sotto l'aspetto informativo e propagandistico, sotto l'aspetto organizzativo fa sì che il regime conosca perfettamente le nostre iniziative in anticipo.

Il regime può quindi mettere dei posti di blocco e far sì che i piccoli cortei non possano riunirsi nel tipico fiume umano. Di conseguenza crescono la quantità di scontri e la violenza del confronto. Con un'organizzazione dettagliata si evitano gli scontri [...].

Il punto di forza del movimento è la sua diffusione tra tutti i diversi strati sociali, anagrafici ed etnici del paese. Perché non è un movimento di guerriglia che richieda l'abbandono della vita ordinaria per parteciparvi. E' formato da persone che vogliono riprendersi i diritti che gli sono stati tolti, e non è giusto che perdano anche quello di vivere normalmente. Il movimento perciò deve utilizzare forme di lotta che possano essere messe in atto a prescindere dall'età o dalla propensione al sacrificio.

Un esempio è il canto collettivo di "Allah Akbar" dai terrazzi di notte: mostra la forza del movimento con pochissimo rischio personale. Un altro esempio è la pianificazione delle manifestazioni durante le ricorrenze ufficiali del regime. Ad esempio, nella prima decade di Muharram [17-27 dicembre ndt], la vita dei cittadini è già organizzata in modo tale da essere compatibile con cortei e manifestazioni quotiodiane. Noi dobbiamo far diventare il movimento una parte della vita ordinaria delle persone, e per questa via diminuirà anche il tasso di violenza.

[...]

Ogni picco di violenza contro il movimento ha certamente causato isolamento e divisioni in seno ai sostenitori del regime. Va però aggiunto che la violenza ha comunque anche l'effetto contrario: fa diminuire la presenza militante delle persone comuni favorevoli al movimento. Così pure qualunque denuncia delle violenze delle forze dell'ordine porta con sé entrambi gli effetti.

In questo contesto va prestata molta attenzione alla fondatezza delle denunce, proprio per evitare il "lato b" della questione. Ad esempio, se gli stupri ai danni donne e uomini arrestati non sono sistematici ma hanno rappresentato un'eccezione per quanto grave, noi non dobbiamo far intendere che lo sono, perché otterremmo solo di terrorizzare le compagne e le loro famiglie. Se sappiamo che le torture ai danni degli arrestati sono diminuiti grazie alle pressioni internazionali, non dobbiamo dire il contrario.

Provocare paure infondate è cedere all'avventurismo. Su questo tema non si deve scendere a compromessi, e sono necessari richiami fermi e immediati a chiunque contribuisca alla diffusione di denunce senza fonte verificabile.

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