Traduco alcuni brani di un'analisi dello storico iraniano Abdollah Shahbazi, fondatore dell'Istituto delle Ricerche Politiche dell'università di Teheran, sul suo blog. Non che la persona mi sia particolarmente simpatica, anzi. Certo Wikipedia va preso con le molle, ma la sua pagina non è particolarmente lusinghiera a mio modo di vedere.
Da quel poco che ho letto sul suo blog mi pare molto vicino ad un antisemitismo abbastanza dozzinale e alle teorie del complotto, come alcuni nazi-maoisti di nostra conoscenza. Non le ritengo colpe emendabili, ed è roba quanto più lontana possibile da una visione scientifica, materialista e marxista della storia. Sebbene l'analisi che sto pubblicando sembra essere abbastanza lucida puntuale, altrimenti non mi ci sarei messo.
Il “male del complottismo” in realtà sembra particolarmente diffuso tra gli storici iraniani, e anche nella società. Il che è abbastanza curioso: un popolo che da un secolo e mezzo ogni trent’anni dà inizio a una rivoluzione, dovrebbe conoscere il peso delle masse nella dialettica storica. Eppure subito dopo la rivoluzione sentivi cose tipo “Khomeini è stato messo su dagli americani per danneggiare i russi”, anche da fonti colte e insospettabili che avevano partecipato alla rivoluzione personalmente. Un argomento che mi fa credere che – durante una rivoluzione – il popolo si trova in uno stato di semi-incoscienza, e che non riconosce più se stesso dopo, a giochi fatti.
Comunque, dicevo, nonostante il personaggio non mi sia particolarmente simpatico, trovo che quest'analisi sia lucida e che la sua opinione sia rappresentativa di chi vive gli eventi attuali da “dentro” il regime. Opinioni che mostrano ancora una volta l’isolamento di Ahmadinejad e di ciò che egli si porta dietro. Anche tra intellettuali fedelissimi alla repubblica islamica e alla visione complottistica del mondo, pienamente in linea con la dottrina dell'imam Khomeini.
Rivolta o rivoluzione?
La sera del 4 novembre ho deciso di fare un giro per le strade, prestando molta attenzione. Ho visto un grosso assembramento nel cortile dell'Università di Shiraz, circondato da Pasdaran e da provocatori in borghese. C'era anche un'insolita presenza di persone comuni sui marciapiedi intorno alla zona, che all'apparenza stavano passeggiando, ma che in realtà aspettavano solo una scintilla per intervenire. Sono tornato a casa e ho seguito i notiziari della notte, giungendo a delle conclusioni.
Non vedo necessità alcuna di trattenermi, dunque parlerò tranquillamente fuori dai denti. La mia storia e le mie preferenze politiche sono note a tutti e quindi non serve nessuna prefazione. Insomma vado dritto al punto.
Nella dialettica politica e sociale contemporanea assistiamo due avvenimenti, diversi tra di loro, ma che inizialmente assumono forme assai simili: le rivolte urbane e le rivoluzioni sociali.
Le rivolte urbane sono eventi collegati al concetto di urbanizzazione e alla peculiare composizione demografica e sociale delle grandi città occidentali. Composizione che, a partire dal secolo XIX, si è estesa anche a realtà extraeuropee. Non sono state poche le rivolte urbane negli ultimi due secoli, un sommario elenco delle quali è presente su wikipedia in lingua inglese.
La rivoluzione è un evento completamente diverso che ha profonde radici sociali. Nella rivoluzione, grandi masse popolari si ritrovano unite intorno a desideri comuni di tipo sociale o economico. La rivoluzione inoltre si manifesta in modo molto chiaro come negazione della condizione presente, mentre non è altrettanto chiara la condizione futura che si desidera.
Le rivolte sono eventi passeggeri pur avendo cause sociali complesse. Possono essere dotate di una spettacolare forza distruttiva, come a Los Angeles nel 1992 o a Parigi nel 2005, ma si esauriscono in un tempo breve. La loro presenza non è di per sé segno di instabilità del sistema. Le rivoluzioni al contrario possono iniziare in sordina ma, data la profondità delle loro radici sociali, non sono eventi passeggeri e fatalmente finiscono per modificare l'assetto politico del paese.
Le rivolte non sono eventi ignoti: sono studiate nelle università e v'è una consistente bibliografia sull'argomento. Inoltre, dato che l'evento accompagna da molto tempo le società contemporanee, le forze di polizia sono in genere adeguatamente addestrate e preparate a farvi fronte. Contro una rivolta in genere la forza è efficace, perché affronta la teppaglia. Ma anche in una rivolta la polizia tende ad usare solo il minimo di forza necessario, evitando di esacerbare ulteriormente gli animi: l'obiettivo è contenere la violenza e riportare la calma, non il contrario.
Non si può affrontare una rivoluzione allo stesso modo. Non si ha di fronte della teppaglia, ma vasti gruppi sociali motivati e non pochi intellettuali. Un regime che cerca la stabilità non può affrontare una rivoluzione con le stesse armi che usa per affrontare le rivolte. Una scelta di questo genere conduce inevitabilmente ad un confronto sanguinoso con la rivoluzione, la caduta violenta del regime, e la disgregazione della società.
Ovviamente si può tentare di contenere per qualche tempo una rivoluzione con la repressione: la rivoluzione russa del 1905 e del 1907, oppure i moti del 1963 e 1964 in Iran, ne sono un esempio. Tuttavia si tratta di casi in cui la repressione in ultima analisi non funzionò: in entrambi i casi la rivoluzione trionfò più o meno un decennio dopo.
Che cosa vedo?
Bisogna osservare gli eventi degli ultimi 5 mesi e mezzo con onestà intellettuale. Va prima osservato correttamente il fenomeno, e poi va cercata la cura. Se un analista, per un pregiudizio ideologico o per orgoglio, non comprendesse correttamente il fenomeno, naturalmente anche i rimedi saranno errati. Negli ultimi mesi, ciò al quale io credo di assistere è il tentativo maldestro di far passare il fenomeno in un modo diverso da ciò che è in realtà. Continuando su questa strada si getta benzina sul fuoco, e gli eventi che seguiranno saranno irrimediabili. Ciò che io osservo non è una rivolta. La sua intensità non è diminuita dopo le prime repressioni, è aumentata. Non si sta esaurendo, sta durando. Non è circoscritto, si allarga.
Ho sentito molti amici, per telefono. E' necessario che non si affronti questa cosa come una rivolta. Non abbiamo di fronte una rivolta, ma una rivoluzione. Sono certo che le mie parole non troveranno spazio nei media, perciò uso il mio blog. A molti la parola "rivoluzione" non fa piacere, molti non osano pronunciarla. Ma bisogna osare. Io mi sento responsabile. Oggi abbiamo ancora delle opzioni che, temo, domani non saranno più a portata di mano. Temo la guerra civile.
Che fare?
Preso atto che siamo di fronte ad una rivoluzione, possiamo tentare alcuni rimedi.
Anzitutto va notato che, diversamente dalle rivoluzioni del passato, i leader riconosciuti e rispettati di questa rivoluzione non desiderano rovesciare il sistema ma correggerlo. Il popolo poi rispetta la volontà di questi leader, la prova è l'abbandono dello slogan "repubblica iraniana" come aveva richiesto Karoubi. Il popolo delle piazze poi è diverso dalla plebaglia della Rivoluzione Francese. E' accorto e istruito, e non finirà così facilmente preda di politici e demagoghi improvvisati. Sono tutte buone notizie per coloro che desiderano il ritorno agli obiettivi originari della rivoluzione del 1979.
Se le mie parole avessero un qualche peso, chiederei di soffermarsi e meditare.
Se le mie parole avessero un peso, chiederei che si avviassero colloqui con Mousavi, Khatami e Karoubi e si lavorasse per il futuro del paese. Ricorderei che nel 1848 gli inglesi appoggiarono in Francia un uomo che non contrastava i loro interessi: Napoleone terzo. Ricorderei come i tedeschi nel 1917 appoggiarono Lenin, per ottenere una pace separata con la Russia. E' mai possibile che il regime non riesca e non voglia dialogare con personaggi come Mousavi, Khatami e Karoubi, che si definiscono fedeli alla Repubblica Islamica e le debbono l'intera carriera politica? E' possibile che il regime preferisca isolare questi leader moderati, e veder trasformare la protesta in un'onda cieca e informe che tutto travolge, pronta per essere cavalcata da avventurieri? E' possibile che ci si voglia comportare al contrario della logica?
Se le mie parole avessero un peso, chiederei che ad Ahmadinejad venisse immediatamente revocata la presidenza da parte del Parlamento, per grave incapacità. Chiederei che venisse immediatamente processato, in un vero processo, per essere stato causa dell'inizio di un'ondata rivoluzionaria nel paese. E per aver spinto il paese verso crisi interne e internazionali continuamente, per tutti gli anni in cui è stato in carica. Al punto che persino gli intellettuali vicini alla destra conservatrice oggi lo considerano "una piaga dal cielo" o un "male incurabile".
Se le mie parole avessero un peso, chiederei che i direttori pagliacci dei media nazionali, e molti imam del venerdì, vengano rimossi ed alcuni di loro processati per aver complottato ai danni della nazione.
In una parola, se le mie parole contassero qualcosa, chiederei che "i saggi della tribù" si riuniscano, lascino da parte i propri gusti e i propri passati politici, e trovino una via d'uscita per il paese.
Da quel poco che ho letto sul suo blog mi pare molto vicino ad un antisemitismo abbastanza dozzinale e alle teorie del complotto, come alcuni nazi-maoisti di nostra conoscenza. Non le ritengo colpe emendabili, ed è roba quanto più lontana possibile da una visione scientifica, materialista e marxista della storia. Sebbene l'analisi che sto pubblicando sembra essere abbastanza lucida puntuale, altrimenti non mi ci sarei messo.
Il “male del complottismo” in realtà sembra particolarmente diffuso tra gli storici iraniani, e anche nella società. Il che è abbastanza curioso: un popolo che da un secolo e mezzo ogni trent’anni dà inizio a una rivoluzione, dovrebbe conoscere il peso delle masse nella dialettica storica. Eppure subito dopo la rivoluzione sentivi cose tipo “Khomeini è stato messo su dagli americani per danneggiare i russi”, anche da fonti colte e insospettabili che avevano partecipato alla rivoluzione personalmente. Un argomento che mi fa credere che – durante una rivoluzione – il popolo si trova in uno stato di semi-incoscienza, e che non riconosce più se stesso dopo, a giochi fatti.
Comunque, dicevo, nonostante il personaggio non mi sia particolarmente simpatico, trovo che quest'analisi sia lucida e che la sua opinione sia rappresentativa di chi vive gli eventi attuali da “dentro” il regime. Opinioni che mostrano ancora una volta l’isolamento di Ahmadinejad e di ciò che egli si porta dietro. Anche tra intellettuali fedelissimi alla repubblica islamica e alla visione complottistica del mondo, pienamente in linea con la dottrina dell'imam Khomeini.
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Rivolta o rivoluzione?
La sera del 4 novembre ho deciso di fare un giro per le strade, prestando molta attenzione. Ho visto un grosso assembramento nel cortile dell'Università di Shiraz, circondato da Pasdaran e da provocatori in borghese. C'era anche un'insolita presenza di persone comuni sui marciapiedi intorno alla zona, che all'apparenza stavano passeggiando, ma che in realtà aspettavano solo una scintilla per intervenire. Sono tornato a casa e ho seguito i notiziari della notte, giungendo a delle conclusioni.
Non vedo necessità alcuna di trattenermi, dunque parlerò tranquillamente fuori dai denti. La mia storia e le mie preferenze politiche sono note a tutti e quindi non serve nessuna prefazione. Insomma vado dritto al punto.
Nella dialettica politica e sociale contemporanea assistiamo due avvenimenti, diversi tra di loro, ma che inizialmente assumono forme assai simili: le rivolte urbane e le rivoluzioni sociali.
Le rivolte urbane sono eventi collegati al concetto di urbanizzazione e alla peculiare composizione demografica e sociale delle grandi città occidentali. Composizione che, a partire dal secolo XIX, si è estesa anche a realtà extraeuropee. Non sono state poche le rivolte urbane negli ultimi due secoli, un sommario elenco delle quali è presente su wikipedia in lingua inglese.
La rivoluzione è un evento completamente diverso che ha profonde radici sociali. Nella rivoluzione, grandi masse popolari si ritrovano unite intorno a desideri comuni di tipo sociale o economico. La rivoluzione inoltre si manifesta in modo molto chiaro come negazione della condizione presente, mentre non è altrettanto chiara la condizione futura che si desidera.
Le rivolte sono eventi passeggeri pur avendo cause sociali complesse. Possono essere dotate di una spettacolare forza distruttiva, come a Los Angeles nel 1992 o a Parigi nel 2005, ma si esauriscono in un tempo breve. La loro presenza non è di per sé segno di instabilità del sistema. Le rivoluzioni al contrario possono iniziare in sordina ma, data la profondità delle loro radici sociali, non sono eventi passeggeri e fatalmente finiscono per modificare l'assetto politico del paese.
Le rivolte non sono eventi ignoti: sono studiate nelle università e v'è una consistente bibliografia sull'argomento. Inoltre, dato che l'evento accompagna da molto tempo le società contemporanee, le forze di polizia sono in genere adeguatamente addestrate e preparate a farvi fronte. Contro una rivolta in genere la forza è efficace, perché affronta la teppaglia. Ma anche in una rivolta la polizia tende ad usare solo il minimo di forza necessario, evitando di esacerbare ulteriormente gli animi: l'obiettivo è contenere la violenza e riportare la calma, non il contrario.
Non si può affrontare una rivoluzione allo stesso modo. Non si ha di fronte della teppaglia, ma vasti gruppi sociali motivati e non pochi intellettuali. Un regime che cerca la stabilità non può affrontare una rivoluzione con le stesse armi che usa per affrontare le rivolte. Una scelta di questo genere conduce inevitabilmente ad un confronto sanguinoso con la rivoluzione, la caduta violenta del regime, e la disgregazione della società.
Ovviamente si può tentare di contenere per qualche tempo una rivoluzione con la repressione: la rivoluzione russa del 1905 e del 1907, oppure i moti del 1963 e 1964 in Iran, ne sono un esempio. Tuttavia si tratta di casi in cui la repressione in ultima analisi non funzionò: in entrambi i casi la rivoluzione trionfò più o meno un decennio dopo.
Che cosa vedo?
Bisogna osservare gli eventi degli ultimi 5 mesi e mezzo con onestà intellettuale. Va prima osservato correttamente il fenomeno, e poi va cercata la cura. Se un analista, per un pregiudizio ideologico o per orgoglio, non comprendesse correttamente il fenomeno, naturalmente anche i rimedi saranno errati. Negli ultimi mesi, ciò al quale io credo di assistere è il tentativo maldestro di far passare il fenomeno in un modo diverso da ciò che è in realtà. Continuando su questa strada si getta benzina sul fuoco, e gli eventi che seguiranno saranno irrimediabili. Ciò che io osservo non è una rivolta. La sua intensità non è diminuita dopo le prime repressioni, è aumentata. Non si sta esaurendo, sta durando. Non è circoscritto, si allarga.
Ho sentito molti amici, per telefono. E' necessario che non si affronti questa cosa come una rivolta. Non abbiamo di fronte una rivolta, ma una rivoluzione. Sono certo che le mie parole non troveranno spazio nei media, perciò uso il mio blog. A molti la parola "rivoluzione" non fa piacere, molti non osano pronunciarla. Ma bisogna osare. Io mi sento responsabile. Oggi abbiamo ancora delle opzioni che, temo, domani non saranno più a portata di mano. Temo la guerra civile.
Che fare?
Preso atto che siamo di fronte ad una rivoluzione, possiamo tentare alcuni rimedi.
Anzitutto va notato che, diversamente dalle rivoluzioni del passato, i leader riconosciuti e rispettati di questa rivoluzione non desiderano rovesciare il sistema ma correggerlo. Il popolo poi rispetta la volontà di questi leader, la prova è l'abbandono dello slogan "repubblica iraniana" come aveva richiesto Karoubi. Il popolo delle piazze poi è diverso dalla plebaglia della Rivoluzione Francese. E' accorto e istruito, e non finirà così facilmente preda di politici e demagoghi improvvisati. Sono tutte buone notizie per coloro che desiderano il ritorno agli obiettivi originari della rivoluzione del 1979.
Se le mie parole avessero un qualche peso, chiederei di soffermarsi e meditare.
Se le mie parole avessero un peso, chiederei che si avviassero colloqui con Mousavi, Khatami e Karoubi e si lavorasse per il futuro del paese. Ricorderei che nel 1848 gli inglesi appoggiarono in Francia un uomo che non contrastava i loro interessi: Napoleone terzo. Ricorderei come i tedeschi nel 1917 appoggiarono Lenin, per ottenere una pace separata con la Russia. E' mai possibile che il regime non riesca e non voglia dialogare con personaggi come Mousavi, Khatami e Karoubi, che si definiscono fedeli alla Repubblica Islamica e le debbono l'intera carriera politica? E' possibile che il regime preferisca isolare questi leader moderati, e veder trasformare la protesta in un'onda cieca e informe che tutto travolge, pronta per essere cavalcata da avventurieri? E' possibile che ci si voglia comportare al contrario della logica?
Se le mie parole avessero un peso, chiederei che ad Ahmadinejad venisse immediatamente revocata la presidenza da parte del Parlamento, per grave incapacità. Chiederei che venisse immediatamente processato, in un vero processo, per essere stato causa dell'inizio di un'ondata rivoluzionaria nel paese. E per aver spinto il paese verso crisi interne e internazionali continuamente, per tutti gli anni in cui è stato in carica. Al punto che persino gli intellettuali vicini alla destra conservatrice oggi lo considerano "una piaga dal cielo" o un "male incurabile".
Se le mie parole avessero un peso, chiederei che i direttori pagliacci dei media nazionali, e molti imam del venerdì, vengano rimossi ed alcuni di loro processati per aver complottato ai danni della nazione.
In una parola, se le mie parole contassero qualcosa, chiederei che "i saggi della tribù" si riuniscano, lascino da parte i propri gusti e i propri passati politici, e trovino una via d'uscita per il paese.
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